di Giancarlo Bovina
Quanto incide il nostro tenore di vita, sulle disponibilità di risorse del pianeta?
I nostri consumi sono sostenibili, garantiscono cioè il mantenimento delle risorse anche per le popolazioni future?
Sono queste le domande che hanno portato Mathis Wackernagel alla formulazione nel 1996 del concetto di “impronta ecologica”, successivamente sviluppato anche con l’aiuto dei ricercatori dell’Università della British Columbia guidati dall’ecologo William Rees.
L’impronta ecologica coincide con il consumo di risorse terrestri, ovvero la superficie produttiva di terra e di mare, espressa in ettari, che ciascuno di noi utilizza per il proprio sostentamento e per mantenere il proprio stile di vita. Nel vivere urbano sembra distante il nostro rapporto con una natura che produce direttamente ciò che consumiamo; eppure nonostante tutto respiriamo aria, consumiamo energia, utilizziamo acqua, ci nutriamo di organismi ed utilizziamo materiali della natura. E non solo, nell’impronta ecologica viene considerato anche quanta natura è impegnata nel riassorbire i nostri scarti, diretti ed indiretti. In tal modo viene anche valutata la superficie forestale necessaria ad assorbire la CO2 prodotta, sia negli ambienti urbani che nelle aree industriali, dall’impiego dei combustibili fossili.
Nel calcolo sono presi in considerazione differenti categorie di consumo (alimenti, trasporti, abitazioni, beni di consumo e servizi) che vengono fatte corrispondere a superfici di terreno utilizzate per l’energia, le produzioni agricole, il pascolo, le foreste, le aree degradate, le risorse marine equivalenti.
L’impronta ecologica consente di sintetizzare con estrema efficacia la misura dei consumi di una popolazione, di osservare le relazioni con le disponibilità e di mettere a confronto le diverse regioni. Applicando il calcolo al pianeta si rileva una disponibilità media di circa 1.9 ettari per ciascun abitante, contro una impronta media di 2.2 ettari, con un deficit di 0.3 ettari pro capite. Ma i paesi sviluppati consumano ed inquinano molto più di quanto gli spetta, incidendo in modo fortemente critico sulle risorse dei paesi in via di sviluppo. Ad esempio gli Stati Uniti hanno una impronta ecologica pari a 9.6 ettari mentre l’Etiopia di 0.7 ettari.
Dieci anni dopo la Conferenza sull’ambiente di Rio de Janeiro, alla vigilia di Joannesburg, dove a settembre 2002 si svolgerà il Summit mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, un indicatore oggettivo di quanto la Terra ci possa ancora sopportare, rappresenta un importante elemento per sensibilizzare efficacemente l’opinione pubblica e spingere ciascuno di noi verso l’adozione di uno stile di vita più responsabile.
Percorrendo la rotta di Ulisse ed osservando le modificazioni dell’ambiente ed i processi di degrado del Mediterraneo è sembrato utile confrontare l’impronta ecologica pro capite dei paesi che vi si affacciano e per i quali siano disponibili dati ufficiali.
Poiché un’impronta ecologica superiore alle disponibilità della Terra indica una condizione di insostenibilità, si può calcolare anche il disavanzo e quindi il deficit od il credito ecologico.
Tra i paesi mediterranei l’Italia presenta un debito ecologico tra i più elevati ed è anche compresa tra quelli con più ampio sviluppo della fascia costiera e con maggior consumo di risorse marine. Queste condizioni lo pongono in una posizione di particolare sensibilità. Le scelte che essa, più di altri paesi mediterranei, potrà compiere nell’orientare il proprio sviluppo nella direzione della sostenibilità saranno quindi strategiche per l’effettiva tutela del Mar Mediterraneo e delle risorse marine, proprie e comuni.