di Alfonso Perri
Il Mediterraneo sembra proprio non aver pace. La continua azione dell’uomo ne logora costantemente la capacità di reazione e rigenerazione. Alle ormai note cause di degrado, dall’inquinamento alla cementificazione delle coste, dalla pesca irrazionale all’erosione costiera, oggi se ne aggiungono altre più subdole ed invisibili, ma non meno devastanti.
Migliaia di metri quadrati di reti da pesca abbandonate sono disseminate in aree sempre più vaste dei fondali, provocando una crescente forma di desertificazione degli ecosistemi marini.
Questo triste spettacolo si è presentato agli occhi dei subacquei di Marevivo che, nel corso della campagna internazionale “con gli occhi di Ulisse: il Mediterraneo di ieri e di oggi con gli occhi di Ulisse” condotta dall’Associazione la scorsa estate, si sono immersi più volte per svolgere osservazioni e per effettuare campionamenti: dal Circeo all’isola di Favignana non è stato difficile incontrare lembi e resti di reti con spesso intrappolati pesci ed altri organismi marini come quella individuata a Salina, nello sperone di Tramontana della secca del Capo dove, tra una profondità compresa fra i 23 ed i 52 metri, una parete strapiombante è totalmente ricoperta da una rete a circuizione. Quest’ultima situazione, di forte impatto ambientale per l’ecosistema marino, sarà oggetto di un complesso ed articolato intervento di recupero al quale la Divisione subacquea di Marevivo sta già lavorando e che verrà effettuato entro questa estate.
Il fenomeno non è certo recente. In secoli di storia marinara le reti abbandonate dai pescatori hanno trovato dimora un po’ dappertutto. La differenza sta oggi nella crescita delle flotte di pescherecci e nell’uso di tecniche di pescaggio sempre più aggressive.
Raramente il fenomeno, pur segnalato, suscita interesse e mai provoca interventi significativi da parte delle autorità marittime. Solo sporadiche segnalazioni giungono dal mondo della subacquea, che costantemente perlustra ogni angolo più nascosto degli abissi marini.
Ma quale delusione quando al posto di colorate pareti di gorgonie rosse e gialle o di variopinte paramuricee, il sub si trova di fronte alla desolazione di secche completamente avvolte dalle lugubri maglie di una impietosa rete a strascico od a circuizione, che l’insensibilità umana ha lasciato a perseverare nella sua mortale funzione.
E lo scempio si presenta agli occhi del sub in tutta la sua devastante portata. L’intera superficie di una parete, un tempo animata dal pulsare di esseri viventi, che convivono all’insegna della più straordinaria biodiversità, si trasforma in un’arida superficie rocciosa, sulla quale solo sporadiche tracce scheletriche, testimoniano la presenza, un tempo, di alghe unicellulari o pluricellulari, se non addirittura di piante superiori, prezioso alimento per gli abitanti, o ancor piu’ indispensabili generatrici di ossigeno.
Per non parlare poi delle specie ittiche un tempo legittime utilizzatrici di quell’angolo di natura, ormai costrette a migrare in altri siti bentonici per assenza di preziosi elementi di nutrimento.
Ma cosa ancor più grave è che le reti abbandonate sono “vive” e continuano a svolgere la propria funzione di sterminatori, intrappolando gli incauti curiosi invogliati all’avvicinamento dal miraggio di carpire un facile boccone.
Non di rado infatti tra le maglie delle reti si trovano agonizzanti saraghi o altri pesci, dai cui occhi traspare tutta la disperazione per la libertà perduta.
Per anni le battaglie condotte dalle associazioni ambientaliste si sono soffermate sui più noti fenomeni di inquinamento ed erosione delle coste quali la crescente concentrazione delle popolazioni costiere e la sfrenata industrializzazione.
Eppure anche fenomeni come la pesca indiscriminata e senza regole, ed il perpetuarsi dell’abbandono delle reti senza nessun impegno ad una campagna di recupero e di bonifica delle aree interessate, costituisce ulteriore motivo di degrado ambientale.
Certo le perturbazioni che continuamente arrivano dall’esterno non fanno che stimolare la capacità reattiva del sistema, fino anche al superamento della stessa capacità di reazione.
Ma ciò non può che comportare un grave sconvolgimento ed una decadenza progressiva fino alla scomparsa dell’ecosistema stesso.
E se da un lato l’eccessivo impatto antropico sia urbano che industriale ha già desertificato vasti tratti di fondale, i danni prodotti anche dalle reti abbandonate non possono che accentuare il divario che ancora esiste tra voglia di tutela ambientale e reale possibilità di attuare una politica di sviluppo sostenibile.
I mezzi per intervenire ci sono, e lo hanno dimostrato i volontari subacquei che in numerose occasioni si sono prestati ad attuare interventi di recupero delle reti con la sola forza della volontà di riuscire nell’impresa, permettendo alle aree oggetto degli interventi di rinascere e ripopolarsi.
Interventi di recupero da attivare a profondità proibitive per la subacquea ricreativa, comportano l’impegno di subacquei tecnicamente preparati, psicologicamente motivati e l’apporto di mezzi di superficie adatti a prestare l’assistenza necessaria.
Un esempio: una campagna di recupero condotta alcuni anni fa da Marevivo sulla Secca di Mezzo Canale (Argentario), ha impegnato cinquanta sub divisi in squadre di dieci, nonché l’utilizzo di oltre 30 palloni di sollevamento con una capacità di spinta dai 100 ai 1000 chilogrammi, ma soprattutto l’ausilio di mezzi navali di appoggio dotati di appositi argani per il recupero delle reti asportate dal fondo.
Un’azione di volontariato che ha registrato un completo successo a dimostrazione che anche i subacquei non professionisti possono dare un concreto contributo per la tutela dell’ambiente.
Educare la gente al rispetto del mare ed insegnare l’informazione indispensabile per mantenerlo vivo e vivibile presuppongono iniziative per combattere l’analfabetismo marino e comprendere fino in fondo un valore profondamente etico per le nostre generazioni e per quelle future: distruggere o lasciare morire il mare significa distruggere l’uomo e tutte le altre specie organiche ed inorganiche.