di Giancarlo Bovina
“Mare, nuvole, pioggia, vapori e nebbie, rugiada, e poi quei paesaggi scavati dall’atmosfera (di aria e di acqua) e dai suoi agenti, ancora la pioggia e l’acqua di dilavamento, il vento, e poi il mare con le sue onde e le sue correnti ed infine l’infaticabile lavoro dell’uomo (contadino e marinaio), che scopre la terra e la trasforma a suo uso sino a modellarla ed a cambiarne sostanza (nel bene e nel male).
Impossibile non pensare a questo intreccio di relazioni, a questi flussi di energia, a questa traversata nel ciclo dell’acqua ed in quello della vita dell’uomo mentre si naviga lungo la mitica rotta di Ulisse. Una rotta che da sempre è nell’anima di tutti (che poi è anch’essa vento “anemos”). La prua apre l’ennesimo solco nell’onda che subito, dopo spruzzi e schiume, si richiude indifferente: il mare non ha questa memoria è comunque un’offesa antica e ben altre sono oggi le offese e di queste conserva il ricordo (l’inquinamento, la devastazione delle coste) nonostante l’infinita pazienza che poi è la sua capacità di rigenerare la propria qualità.
Di quello spruzzo, poco dopo, solo sale resta sulla pelle a ricordare l’altro elemento che forte segna il ricordo di questo viaggio: il sale appunto.
Quanta storia di mare e di costa è legata al sale, alla sua produzione, al trasporto ed al commercio, al suo impiego come metodo di conservazione degli alimenti. Ed altri riferimenti ancora, lungo la rotta di Ulisse, riportano al sale ed ai suoi metodi tradizionali di produzione. La costa occidentale siciliana, nel tratto compreso tra Marsala e Trapani, si caratterizza per la presenza di grossi depositi bianchi e forme tronco piramidali allungate ricoperte di tegole. Sono i cumuli di sale estratto dal mare utilizzando l’energia del sole e del vento, il frutto delle saline, coltivazioni tradizionali quasi immutate da millenni.
Poco meno di 40 grammi per litro è il contenuto salino dell’acqua di mare: di questi circa 31 grammi sono cloruro di sodio (NaCl), il sale alimentare. Spesso bistrattato dalle diete salutiste, il sale, sin dal neolitico, ha rappresentato la materia fondamentale per l’alimentazione, sia per l’apporto all’organismo che per la conservazione degli alimenti. Per buona parte della storia esso ha rappresentato “l’oro bianco” e ad esso sono state legate economia e potere. Nel corso dei secoli, le tecniche di produzione sono state molteplici ma si possono distinguere due strade principali: il sale marino, prodotto dalle paludi salate e dalle saline, il sale terrestre prodotto dalle sorgenti e pozzi di acqua salata o direttamente affiorante nelle miniere di salgemma.
La prima fonte, quella marina, in linea di massima può essere definita solare poiché utilizza il sole come fonte di energia per l’evaporazione dell’acqua ed il raggiungimento delle condizioni ottimali di concentrazione. La seconda viene chiamata ignea poiché l’acqua di estrazione viene portata alla saturazione e quindi innescata la precipitazione del sale mediante il riscaldamento con combustibili.
A guardare la storia delle tecniche di produzione del sale marino (indispensabile l’opera di Jean-Claude Hocquet: “Il sale e il potere”), si osserva come si tratti di metodi in continua evoluzione e come ogni area costiera, quasi ogni sito, abbia visto applicate metodologie e lavorazioni proprie. Lungo le coste della Zelanda, regione occidentale dell’Olanda, era praticata una tecnica produttiva a metà strada tra l’attività industriale e quella agricola. Le torbe sature di acqua marina venivano utilizzate per la combustione all’interno dei focolai domestici; il sale veniva poi estratto dalle ceneri per successiva solubilizzazione. Un processo “circolare” di produzione che ha dato il nome alla regione: Zeeland terra delle ceneri salate. Nei pressi di Mont Saint Michel era utilizzata la tecnica delle sabbie salate: in riva al mare venivano realizzati solchi circolari lungo i quali, sfruttando i movimenti di marea, si depositava il sale. Le incrostazioni venivano poi rastrellate ed il sale estratto per lavatura ed ebollizione. E’ certo che in epoca romana le popolazioni “barbare” delle regioni inglesi producevano il sale cospargendo carboni ardenti con acqua di mare e producendo così un materiale sporco tanto che Giulio Cesare impose la tecnica romana della bollitura delle acque salate.
Nel bacino del Mediterraneo i metodi di produzione hanno fatto riferimento al sale solare prodotto tramite vasche costruite dall’uomo in riva al mare: le saline. Se le produzioni del sale terrestre possono essere inquadrate nell’ambito di una lavorazione industriale (attrezzi, caldaie e combustibile), le saline appartengono ad un vero e proprio ciclo di raccolta e quindi costituiscono una lavorazione di tipo agricolo. E’ infatti necessario un lavoro abile e paziente in grado di utilizzare al meglio quello che la natura mette a disposizione, come materia e come energia: l’acqua di mare, il sole, il vento e la pioggia. La giusta combinazione di questi elementi era alla base del buon esito del raccolto; troppo sole, troppo vento o troppa pioggia possono infatti compromettere il lavoro di un anno se non addirittura compromettere la funzionalità della salina per diversi anni.
Mentre lungo le coste adriatiche, come quelle atlantiche della Francia, il ciclo di raccolta era breve (giornaliero) e gestito a livello familiare, lungo le coste meno piovose, più assolate e secche, era invece annuale e la fase del raccolto, che poteva durare mesi, era condotta da numerosi braccianti.
La cristallizzazione è una fase delicata poiché nell’acqua di mare sono disciolti oltre NaCl, altri sali quale MgCl, che conferiscono sapori sgradevoli oltre ad avere effetti fastidiosi. Nel processo di precipitazione dei sali prodotto dall’evaporazione dell’acqua di mare esiste una precisa sequenza di formazione di sali che si formano alle diverse temperature e concentrazioni della salamoia. Per avere NaCl puro è necessario raggiungere un livello di “maturazione” specifico della soluzione salina; il salinaio di un tempo, senza strumentazione alcuna doveva gestire il processo evaporativo impiegando in modo ottimale acque dolci ed acque salate. Più che per le coltivazioni agricole egli doveva “governare” l’acqua, il sole ed il vento e le proprie energie. Un errore nella conduzione della salina, o un accidente atmosferico, poteva portare alla perdita del raccolto ed alla sterilità della vasca per alcuni anni, prima di recuperare le condizioni ottimali di produzione.
A differenza delle saline o degli stagni salati della costa atlantica, dove per riempire di acqua di mare le vasche veniva sfruttata l’energia delle maree, nel Mediterraneo l’innalzamento dei grossi volumi d’acqua (anche diverse migliaia di metri cubi al giorno) avveniva mediante l’energia del vento o con i muli. Solo creando il giusto carico idraulico l’acqua è in grado di circolare all’interno della salina, enorme scacchiera le cui caselle di differente colorazione sono vasche collegate da chiuse e canali, ciascuna con la propria funzione nella progressiva depurazione della soluzione salina durante il processo evaporativo.
Le saline Ettore e Infersa presenti lungo la bassa costa di Trapani sono un esempio vivente della antica coltivazione del sale. Esse ricadono al limite della Riserva Naturale delle Isole dello Stagnone di Marsala, un ambiente caratterizzato da un paesaggio del tutto particolare. Un insieme di straordinarie componenti naturali ed antropiche in stretta sintonia ed in forte sinergia: il mare costiero, le aree umide, la strada sommersa ed i resti archeologici di Mozia, la prateria di Posidonia della laguna con la sua particolare conformazione (prateria tigrata), la coltivazione del sale “integrale”. Ambiente certamente antropizzato quello dello Stagnone ma dove, come in pochi altri luoghi, il segno dell’uomo sfuma nella natura forse addirittura esaltando la complessità delle diverse componenti. Frutto della grande passione che anima i proprietari, la famiglia D’Alì, le saline dello Stagnone rappresentano un mirabile esempio di gestione circolare delle risorse naturali: attività produttive perfettamente coerenti con i principi dello sviluppo sostenibile. Puntando sia sulle caratteristiche di qualità del sale integrale, esaltate dalla tecnica produttiva tradizionale (praticamente identica a quella impiegata nel corso dei secoli precedenti), che sulla conservazione dell’ambiente naturale e sulla valorizzazione delle produzioni e delle risorse naturali, anche attraverso interventi per la fruizione naturalistica, la famiglia D’Alì sta tentando di garantire la sopravvivenza di questi ambienti. In tal senso le saline dello Stagnone offrono uno spunto certamente significativo e meritevole di attenzione, un possibile modello per la ricerca della sostenibilità delle attività umane in un’area generalmente critica per la conservazione delle risorse quale la fascia costiera.